Stadi più sicuri e a misura d’uomo, centri sportivi di migliori livello, maggiore attenzione al settore giovanile. Sono queste le aree nelle quali il calcio italiano deve investire se vuole avvicinarsi al livello della Premier League, il campionato piú bello (e ricco) del mondo.
A dirlo sono calciatori, allenatori e dirigenti italiani che negli anni hanno contribuito all’evoluzione e al grande successo della Premier League, riuniti dall’Ambasciata d’Italia a Londra in una serata dedicata al tema svoltasi giovedi 28 aprile. Un evento ideato e coordinato da Stefano Boldrini, storico corrispondente della Gazzetta dello Sport, ora al Messaggero.
Gino Pozzo, proprietario di club in entrambi i campionati (Udinese in serie A e Watford in Premier) è nella posizione migliore per notare le differenze. “Le infrastrutture sono fondamentali. Qui il sistema e le normative per investire sono migliori. Per ottenere i permessi per realizzare il nuovo stadio a Udine ho dovuto aspettare 10 anni. Al Watford mi sono bastati 10 mesi”.
Secondo Pozzo, i dirigenti italiani impegnati nel calcio sono di altissimo livello, ma in Italia devono scontrarsi con maggiori difficoltà. Gli fa eco Fabio Paratici, director of football al Tottenham, dopo piú di dieci anni passati alla Juventus, “Qui sono avanti di anni, è tutto molto diverso”.

Se Conte è assente giustificato, sono presenti in video-conferenza i quattro allenatori italiani che hanno mietuto piú successi nel Regno Unito, Ancelotti, Capello, Ranieri e Mancini, tutti d’accordo a considerare la Premier League il campionato piú bello del mondo. “Quando giocavo ero un combattente, e qui conta avere uno spirito mai domo” dice Ranieri ricordando la straordinaria impresa del suo Leicester. È un piacere vederli dialogare, con Capello pronto a bacchettare Ancelotti per la disastrosa performance difensiva del suo Real Madrid nel 4-3 con il Manchester City.
“Il successo della Premier League è iniziato con l’eliminazione degli hooligans e il rinnovamento degli stadi” ricorda Ancelotti, facendoci tornare a un periodo neanche troppo lontano, quando era il campionato italiano ad essere considerato il piú bello del mondo. “Noi italiani qui abbiamo portato competenze, oggi la Premier è un campionato globalizzato”.
Il contributo degli italiani al successo della Premier League è indiscusso. Ma l’arricchimento è stato reciproco, se non a livello di sistema sicuramente a livello personale, con giocatori e allenatori unanimi nel riconoscere di essere diventati migliori giocando nel Regno Unito. “Qui bisogna dare il meglio” dice Gianfranco Zola, uno che a Londra ha raggiunto vette di assoluta eccellenza, al punto di essere votato nel 2003 il miglior giocatore di sempre del Chelsea. “Londra ti da un ‘edge’.
Inevitabile non parlare di Nazionale. La vittoria dell’Italia nella finale di Wembley è ancora fresca, così come la cocente eliminazione dal mondiale. La prima è servita a fare camminare gli expat italiani a testa alta (e Capello ricorda come nel 1974 dedico’ ai “camerieri italiani” il gol che diede agli Azzurri una vittoria storica), ma la seconda ha riportato a galla i problemi del calcio italiano di questi ultimi anni.
Mancini mette il dito sulla carenza di investimenti nei giovani. In serie A, spiega, solo il 34% dei giocatori è di nazionalità italiana (nel 2006, quando vincemmo il mondiale, erano il 64%). Ancora peggio nei campionati Primavera, dove solo il 30% è italiano. Un problema per la Nazionale, ovvio, ma anche per tutto il sistema calcio del paese, al quale manca un flusso naturale di giocatori. E sotto accusa è anche il modo con il quale i giovani calciatori italiani vengono cresciuti, troppo focalizzato sulla vittoria ad ogni costo.
“I ragazzi devono avere il tempo per maturare, non bisogna solo insegnargli a vincere” dice Zola, e Ranieri strappa l’applauso ricordando che la vittoria è importante ma prima di tutto, il calcio deve essere armonia e gioia.