Il messaggio per i lavoratori italiani nel Regno Unito è chiaro: se avete un problema sul lavoro, i sindacati britannici non vi daranno assistenza, a meno che non siate (da tempo) tra i loro iscritti. Corollario: non pensate di iscriversi a un sindacato se avete un problema da risolvere. L’iscrizione vi sarà rifiutata per evitare di dovervi offrire assistenza.
Insomma, più che a un servizio sociale, i sindacati britannici assomigliano a un’assicurazione medica, che si può sottoscrivere soltanto da sani e non da ammalati.
E’ questo l’elemento più significativo, per certi versi scioccante, che è emerso durante l’incontro di presentazione della guida “Lavorare nel Regno Unito: una guida ai tuoi diritti”, realizzata dalla TUC, il sindacato inglese, in collaborazione con la CGIL. L’incontro si è tenuto venerdì 23 gennaio pomeriggio nella sede di Londra del Patronato INCA-Cgil, una villetta nella zona di Highbury, affollata per l’occasione.
Va detto subito che la guida, nelle sue due versioni (cartacea e online) è uno strumento utilissimo per capire il mondo del lavoro in UK e i diritti di base dei lavoratori. La versione cartacea della guida è un libretto di piccole dimensioni, poco più grande di un pacchetto di sigarette, stampato da un lato in Italiano e dall’altro in Inglese. La versione online è disponibile sul sito TUC in 13 lingue incluso l’italiano (http://www.tuc.org.uk/lavorareNelRegnoUnito)
Scritta in modo sintetico e diretto, la guida illustra le tre tipologie di lavoratore del sistema britannico (Employee; Worker; Self-Employed) e i loro diritti base.
L’Employee (nella versione italiana tradotto in “lavoratore dipendente”) è colui che gode dei maggiori diritti, anche se generalmente minori di quelli normalmente goduti in Italia. Per poter essere considerati employees è necessario soddisfare alcuni requisiti, tra i quali quello di avere un contratto di lavoro scritto e un orario di lavoro regolare, ma non esiste una definizione precisa.
Il Worker (“lavoratore atipico”) gode di pochi diritti. Si può essere licenziati senza preavviso e senza indennità. Non sono previsti permessi in caso di emergenze o necessità personali, e sono quasi assenti le tutele in caso di maternità. In questa categoria rientrano tanti lavoratori, inclusi quelli che hanno un contratto con un’agenzia (“agency workers”).
Il Self-Employed (“lavoratore autonomo”), infine, non ha praticamente alcun diritto, a parte la possibilità di chiedere un sussidio in caso di gravidanza (“maternity allowance”).
Per conoscere i propri diritti, un lavoratore nel Regno Unito deve sapere la tipologia del proprio lavoro, ma non è sempre immediato scoprirlo: chi lavora a tempo pieno per il tramite di un agenzia interinale è spesso convinto di avere i diritti di un Employee quando invece lo status è generalmente quello di Worker. Molto frequente anche il caso di Workers costretti dal datore di lavoro a dichiararsi Self-Employed (”falso lavoro autonomo”).
“I diritti che avete al lavoro dipendono dallo status di lavoratore che avete” – spiega Rosa Crawford, Responsabile delle Relazioni Internazionali di TUC – “spesso è molto difficile capire in che tipo di contratto ci si trova – e si scopre quando è troppo tardi”.
Una volta capito in che tipologia ci si trova, è poi necessario verificare le regole specifiche del proprio settore, regole che spesso sono negoziate al ribasso. “Qui il mercato del lavoro è molto deregolato” avverte Marisa Pompei, presidente dell’Inca-CGIL – “Non possiamo aspettarci le stesse tutele che avevamo in Italia”. La guida non arriva a questo dettaglio, rinviando ai siti dei sindacati per approfondimenti specifici.
“I datori di lavoro hanno troppo potere” si lamentano in coro i sindacalisti britannici presenti. “Dovete iscrivervi al sindacato per potere essere tutelati gratuitamente” aggiungono, in quello che appare come un goffo tentativo di spaventare i presenti per raccogliere nuovi adepti. Emerge una certa incoerenza nell’atteggiamento dei sindacati britannici, da un lato di apertura (“volunteer, get involved”) e dall’altro di chiusura (“you got to be in the union to be represented”).
Chiedo quale sia, nelle varie categorie, la percentuale di lavoratori iscritta al sindacato. La risposta è imbarazzata, si percepisce un certo disagio nel rivelare che la rappresentatività è molto bassa, se non addirittura nulla in molti contesti lavorativi, soprattutto a Londra.
Ma il tema chiave, oggi, non è quello della disparità dei diritti tra Italia e UK, o tra le varie forme di lavoro, ma è quello della mancata assistenza ai non appartenenti al sindacato. Rispondendo alle ultime domande, i sindacalisti presenti confermano l’esistenza di una 4-weeks policy: non si assistono le persone che hanno avuto problemi nelle quattro settimane precedenti alla data di iscrizione al sindacato.
Qualcuno tra il pubblico prova a sostenere calorosamente che il sindacato dovrebbe aiutare tutti i lavoratori in difficoltà, non solo gli iscritti, ma la risposta dei relatori inglesi è fredda. “Il sindacato non è un servizio universale, è una cooperativa, una fratellanza” (“brotherhood”) – taglia corto O’Shea, del sindacato UNITE. “Ci proteggiamo a vicenda, e non sopportiamo chi vuole fare ‘freeloading’, ovvero ottenere gratis un servizio per il quale gli altri pagano”.
Esco dall’incontro chiedendomi come sia possibile interpretare il sindacato come una sorta di “club” privato i cui servizi sono riservati agli iscritti. Mi sorprendo a rimpiangere i sindacati italiani che, pur con tutti i loro (tanti) difetti, non hanno ancora abbandonato quel senso sociale che è alla base della loro stessa esistenza.
Londra, 26/1/2015
Francesco Ragni
foto: profilo Facebook TUC