“Vorremmo che il governo inglese negoziasse un permesso di lavoro per i professionisti del settore della musica e dello spettacolo, affinché gruppi musicali, artisti, personaggi della TV e celebrità sportive possano viaggiare liberamente attraverso i 27 paesi dell’Unione Europea e affinché il trasporto degli strumenti sia esente dai dazi doganali.”
Questa la petizione avviata dal regista Tim Brannon e ad oggi firmata da più di 260mila cittadini britannici e non affinché il governo riveda i trattati con l’Unione e faciliti la libera circolazione degli artisti in tour.
Già in ginocchio a causa dell’emergenza sanitaria in corso e da mesi impossibilitati ad esibirsi live, i musicisti britannici si sono sentiti ulteriormente abbandonati dopo che fonti dell’Unione Europea hanno rivelato che a rifiutare la clausola per l’esenzione degli artisti dal sistema d’immigrazione a punti ed i visti lavorativi era stato proprio il governo Johnson.
A dicembre, mentre l’eventualità di un no-deal faceva tremare i performers da entrambi i lati della Manica, alcuni esponenti di punta della scena musicale inglese avevano denunciato un possibile “effetto catastrofico” della Brexit su un’industria che normalmente genera più di 5 miliardi di sterline all’anno. Voci dal Numero 10 avevano però assicurato che “si sarebbe fatto di tutto per tutelare la libertà di circolazione degli artisti in tour.”
Ad oggi, non solo tale promessa non è stata mantenuta, ma il governo britannico si rifiuta di assumersi la responsabilità di un mancato accordo, puntando invece il dito contro von der Leyen. Ma chi abbia rifiutato cosa non cambia il risultato: gli artisti sono bloccati da un lato o dall’altro della frontiera, causa burocrazia e costi, la presenza ed i successi di musicisti britannici in Europa ed europei nel Regno Unito calerà e a rimetterci saranno soprattutto i piccoli gruppi emergenti ed i lavoratori autonomi.
Al momento, per gli artisti britannici che intendono esibirsi sul continente è richiesto infatti un visto per permanenze più lunghe di 90 giorni durante un periodo di 180, con l’Italia tra i paesi con le norme più strette (qui infatti è richiesto anche un permesso di lavoro per permanenze inferiori ai 90 giorni). Mentre gli artisti che viaggiano in direzione contraria dovranno applicare per il visto Tier 5 (Creative & Sporting Visa), oltre ad ottenere la sponsorship da un datore di lavoro britannico certificato.
I costi del visto – che in Inghilterra ammontano a £244 più spese mediche, – le logistiche ed i tempi della burocrazia potrebbero rendere i tour in UK non fattibili per i piccoli gruppi emergenti, gli artisti freelance o le orchestre, per le quali al prezzo del visto, moltiplicato per il numero di musicisti, vanno aggiunti i dazi doganali applicati sugli strumenti.
Gli effetti della Brexit si vedranno anche ai festival musicali, dove gli organizzatori potrebbero preferire artisti locali invece che spendere milioni per aggiudicarsi gruppi inglesi, vittime questi ultimi ed i fans.
“I tour sono la linfa vitale dell’industria della musica e dello spettacolo,” ricorda la direttrice dell’Incorporated Society of Musicians. La musica dal vivo genera il 20% degli introiti del settore, senza dimenticare che tour e spettacoli sono spesso la maggior fonte di guadagno per chi la musica la produce. Un passaporto per musicisti che permetta la libera circolazione tra i paesi dell’Unione e il Regno Unito rimane perciò l’unico modo per salvare l’industria dal suo triste destino post-Brexit.