“Mai vissuta un’emozione simile! Ancora sono in trance: non riesco a lavorare” mi scrive Alessandro lunedi pomeriggio.
A lui la finale è costata cara: non tanto il prezzo del biglietto, 95 Euro per un “Fans First”, ma anche il suo orologio, che qualcuno gli ha sfilato nella bolgia seguita all’ultimo rigore, e uno spavento terribile. Nell’attimo in cui stava entrando ai tornelli due hooligan senza biglietto lo hanno spinto violentemente da dietro per entrare insieme a lui, sfidando non solo le regole UEFA ma anche le leggi della fisica. Alessandro si è trovato schiacciato tra i tornelli e il muro e ha rischiato di spaccarsi le ossa. Fortunatamente ne è uscito indenne e ha potuto godersi la vittoria dell’Italia tutto intero. E chissenefrega dell’orologio.
Giancarlo non si è perso neanche una delle partite dell’Italia a Wembley, conscio dell’importanza dell’evento. “Abbiamo preso in giro gli Inglesi che non vincevano un trofeo dal 1966 ma era pur vero che noi l’Europeo l’avevamo vinto una volta sola nel remoto 1968. Queste sono sfide epocali. Se non le vinci rischi di condannare una generazione all’oblio. Avevo solo sette anni quando Riva e Anastasi segnarono contro la Jugoslavia e ci permisero di alzare la prima e fin qui unica coppa d’Europa.”
Pensieri elevati al cubo per lui che vive a Londra da 31 anni e ha tre figli nati nel Regno Unito. Nonostante qualche paura per il Covid ha deciso di portarli tutti incluso il figlio Marco, 17 anni, non ancora vaccinato. “Il calcio unisce e trasforma le passioni: con i miei figli abbiamo messo parte la flemma acquisita in tutti questi anni nel Regno Unito per saltare e gridare fino alla fine. Siamo stati tra gli ultimi ad uscire dallo stadio come per perpetuare il sogno.”
Gli echi dei tafferugli e la grande tensione all’interno dello stadio, con parecchi tifosi inglesi infiltrati anche nella zona italiana, si sono fatti sentire. Giuseppe, 20 anni, nato e cresciuto a Londra da genitori napoletani non si è sentito sicuro fino a quando non è risalito in macchina “Esperienza molto bella, ma a tratti più che all’esito della partita pensavo al nostro ritorno alla macchina parcheggiata in zona ultra-inglese”. Anche per lui, per fortuna, tutto è filato liscio, ed è potuto tornare a casa senza incidenti, osservando lo spettacolo memorabile dell’arco di Wembley dipinto con il tricolore.
Raffaele, giornalista e autore, ha trovato il prezioso biglietto solo il giorno prima “È stata una esperienza unica. Un concentrato di emozioni. Il gol inglese, il pareggio meritato, i rigori. Non lo dimenticherò mai. Resterà tutto impresso nella mia memoria e … in quella del mio cellulare. È stato un momento unico che ha avuto il sapore di collettivo.” Anche lui si sente campione. “L’Italia di Mancini ha avuto il merito di portarci tutti a Wembley. È una vittoria di tutta la nazione, non di una elite sportiva. È il trionfo della resilienza e del sacrificio”.
Aggiungo i miei pensieri. Le emozioni di queste settimane le sto metabolizzando solo ora, leggendo i commenti e riguardando video e fotografie sul cellulare.
Le tre partite sono state un crescendo. Per Italia-Austria eravamo poche migliaia, in uno stadio pieno solo per metà. Il boato per il goal annullato agli austriaci e per le successive reti di Chiesa e Pessina ha fatto tremare Wembley e i nostri cuori, ma era poca cosa in confronto a quello che sarebbe venuto dopo.
Per la semifinale con la Spagna eravamo almeno 10mila, in uno stadio con una capienza di 60mila. Tanti spagnoli, un bel clima sportivo, una partita sofferta, e una tensione infinita, risolta solo con l’ultimo rigore di Jorginho, tirato proprio davanti a noi. Una palla che ha rotolato lentissima, e sembrava non entrare mai, ma il portiere era ormai dall’altra parte e ha potuto solo guardarla insieme a noi.
La finale è stata diversa, e non solo per la posta in palio. Wembley non era più un campo neutro, ma una fossa di leoni. Un Colosseo nel quale a noi era stato riservato il ruolo delle vittime sacrificali. La curva italiana è stata commovente dall’inizio alla fine, nonostante fossimo in palese inferiorità numerica, con gli inglesi a poche decine di metri e con un tasso alcolico altissimo. Abbiamo sentito la pressione psicologica, forse più degli Azzurri in campo, e anche per questo alla fine l’esultanza finale è stata impressionante.
Abbiamo sostenuto la squadra, anche per tutti gli italiani da casa, e insieme a loro abbiamo trionfato. Non morituri ma conquistatori. Ora ci sentiamo tutti campioni d’Europa. Il rapporto tra la squadra e i tifosi azzurri era stato bellissimo nelle due partite precedenti ma con la finale ha raggiunto livelli ulteriori. Credo che se avessero potuto abbracciarci tutti, Bonucci e soci lo avrebbero fatto.
Difficile dire che cosa rimarrà di tutto questo adesso che il torneo è finito. Di sicuro per i prossimi quattro anni potremo camminare a testa alta in un paese che continuiamo ad apprezzare, nel quale ci sentiamo a casa, ma è un paese che non appena parte l’Inno di Mameli passa in secondo piano, non importa da quanti anni ci vivi.
“Da oggi è ancora più bello essere un italiano in UK” mi ha detto il mio vicino di casa Antonio, che gestisce un ristorante in centro, il giorno dopo la partita. Non aveva potuto esserci per Italia-Spagna, ma non ha sentito storie per la finale. Per lui sarà un luglio da ricordare doppiamente, visto che fra due settimane gli nasce una bambina.
“Quasi quasi la chiamo Donna(Rumma)” mi dice. Immagino che scherzi ma a questo punto non ne sono molto sicuro.