L’appuntamento con Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) è in un albergo dal nome vagamente siciliano, il “San Domenico House Hotel”, ma siamo in pieno Chelsea e non a Taormina. L’occasione è la proiezione londinese del suo film “La Mafia Uccide Solo d’Estate”. Pif mi accoglie insieme a Michele Astori, anche lui palermitano, co-autore del film.
“Adesso siamo una coppia omosessuale di fatto” scherza Pif, “facciamo anche un programma radiofonico, stiamo lavorando al secondo film”, ma più che di coppia bisognerebbe parlare di un trio, visto il frequente riferimento al terzo autore del film, lo sceneggiatore Marco Martani. “Fondamentale, perché di noi tre è l’unico vero sceneggiatore e, in quanto non-siciliano, punto di riferimento per evitare di cadere nei cliché. Non è facile per un palermitano descrivere la mafia. E’ una cosa così dentro la tua vita che molte cose le dai per scontate”.
Iniziamo dal secondo film. A che punto siete?
Grosse discussioni, grossi ragionamenti… però io comincio ad avere la sindrome del secondo film. Per il primo, nessuno si aspettava niente. Se fosse andato male, avrei negato di aver fatto un film. Invece ora sono tutti con il fucile puntato.
Continuerai sul filone del primo film?
Il film ha avuto successo, potenzialmente possiamo raddoppiare gli spettatori che sono venuti a vederlo, approfondendo l’argomento. Oppure cambiare completamente. La terza possibilità è ritirarsi, fare retrospettive da un film.
O passare direttamente al terzo film?
Questa è un’altra possibilità, come diceva Troisi. Infatti lo presenterò come il mio terzo film: “Dopo l’insuccesso del secondo…”, perché poi alla fine sai che in Italia si nasce giovani promesse e si diventa i soliti stronzi.
Come nasce l’idea di “La mafia uccide solo d’estate”?
(Astori) In realtà nasceva come un film contro Andreotti. Pif era ossessionato dal fatto che in Italia si ignora che Andreotti fino all’80 i rapporti con la mafia li ha avuti ed è stato condannato. Questa cosa non lo faceva dormire.
(Pif) Purtroppo c’è quell’immagine della Bongiorno che urla “Assolto! Assolto!” che ha distrutto anni di processi.
(Astori) Questa era l’esigenza: dire la verità su quella storia. Però ovviamente non si poteva fare un film documentaristico, bisognava trovare una storia che permettesse di raccontare questo fatto. Da qui è venuta l’idea di raccontare un bambino, che più o meno è un elemento autobiografico, generazionale.”
Vi siete ispirati a “La vita è bella”?
Il nostro modello di film era Forrest Gump. Poi, scrivendolo, effettivamente ricorda un po’ “La vita è bella”, questo tentativo di raccontare il male nella misura meno drammatica possibile.
Anche a noi palermitani quello che è successo in quel periodo è chiaro da poco, eravamo così coinvolti che non ce ne rendevamo conto. Il tempo ci ha reso più lucidi, ci ha fatto capire che vivevamo in un mondo che non voleva vedere la realtà, e questo probabilmente ci ha salvato.
Mi piace l’idea di parlare della mafia senza cliché. Non si vede gente con la coppola, non si parla di cannoli (al limite si parla di iris), anche perché non è che a Palermo mangiamo cannoli e cassate tutti i giorni. La nostra intenzione era proprio raccontare la vita quotidiana a Palermo. Nel film di mafia di solito la pellicola finisce con la morte del protagonista; qui invece si va oltre, si vede cosa succede dopo, come reagiscono i palermitani.
Qual è stata la reazione dei parenti delle vittime?
Ad alcuni dei parenti ho accennato qualcosa – ma era difficile spiegare. Alla figlia del giudice Chinnici non potevo dire: ho fatto un film su Rocco Chinnici, il film non è su di lui, c’è anche lui. Loro magari si aspettavano di vedere Chinnici mentre lavora e indaga, vagli a spiegare che si tratta di un film dove si vede suo padre nell’androne delle scale mentre va a lavorare.
Mi sono detto: faccio prima a fare il film e farglielo vedere che a spiegarglielo, e devo dire che ringraziando il cielo non solo non si sono arrabbiati ma lo hanno apprezzato. Tutti ci hanno detto che ne abbiamo colto l’aspetto umano.
(Astori) La frase più bella ce l’hanno detta i nipoti di Dalla Chiesa e di Mario Francese un pomeriggio quando gli abbiamo fatto vedere il film. Noi eravamo terrorizzati, loro uscendo ci hanno detto “avete restituito poesia alla loro vite”.
Il Presidente del Senato Pietro Grasso ha dichiarato che il tuo è il più bel film di mafia mai fatto. Che effetto ti ha fatto vedere il film in sala con lui?
Era la prima volta che tornava al cinema dopo vent’anni, con il pubblico. Grasso ha sempre raccontato che quando faceva il giudice a Palermo andò con la moglie al cinema Ariston a vedere “Crimini e Misfatti” di Woody Allen, parliamo di vent’anni fa. Mentre era seduto con la moglie sentì uno che gli stava accanto dire “guarda chi c’è, spostiamoci, non si può mai sapere”. Questa cosa gli ha fatto passare la voglia di andare al cinema.
Tutto pensavo tranne di andare a vedere il mio film con il presidente del Senato. Ricordo che ce l’avevo accanto, ogni tanto con la coda dell’occhio cercavo di capire la sua reazione. Lui era particolarmente coinvolto perché in quegli anni era proprio in prima linea.
Dopo l’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica hai girato un breve filmato davanti alla lapide dedicata al fratello Piersanti, e sei stato subito attaccato.
“Il solito stronzo”. Fa ridere perché è da un vita che faccio queste cose: ci ho fatto un film, due puntate del “Testimone”, un servizio delle “Iene”. Mi aspettavo al massimo una critica: “Pif, co ’ste lapidi ci hai rotto le palle”. E invece gli attacchi: è il passaggio dalla giovane promessa al solito stronzo (“per poi finire venerato maestro” conclude Astori, completando la citazione da Berselli). Questa è l’Italia.
Non ci rimane che aspettare il tuo nuovo film. Ma non ci puoi dire proprio niente?
Diciamo che torniamo indietro nel tempo, tendenzialmente rimaniamo in Sicilia, c’è un sentimento siciliano. D’altronde nei primi film ti spari tutte le cose che hai, e come regista io voglio passare come regista siciliano. Questo lavoro è così bello perché puoi andare in tutto il mondo, però ci sono alcune cose che ci teniamo di più a raccontare.
Francesco Ragni
Londra, 10 aprile 2015