Da quando è apparso sulle scene, Kurt Cobain, leader dei Nirvana, è parso subito un’icona nata. Mentre esce il documentario Kurt Cobain: Montage Of Heck, vediamo come il cinema lo ha raccontato finora.
Bianco e nero, la barba lunga, i capelli che gli scendono sul volto quasi a incorniciarlo. C’è una foto che, più delle altre, identifica Kurt Cobain come icona. Come figura, perdonateci il parallelo, quasi cristologica, agnello sacrificale per la salvezza della purezza del rock contro il peccato del mercato. Sarà stata la sua morte prematura, sarà stato che, oltre che per la sua musica, lui e i suoi Nirvana sono esplosi anche grazie a Mtv e un video dall’impatto indelebile, quello di Smells Like Teen Spirit, ma Kurt Cobain è stato da subito, e oggi lo è sempre di più, un’icona.
Forse perché si racconta da solo, o forse perché è un mistero ancora insondabile, ma la Settima Arte finora ha quasi esitato a rappresentarlo, ad appropriarsene. In attesa del biopic, del classico film di finzione, che l’ex moglie Courtney Love sta preparando da anni, arriva ora sugli schermi Kurt Cobain: Montage Of Heck, di Brett Morgen, documentario prodotto dalla figlia, Frances Bean.
“Ho cercato di raccontare la sua storia non come quella di un’icona rock, ma come quella di un ragazzo che diventa grande” ha raccontato il regista. Che ha confidato come qualcuno del management gli abbia detto: “Non puoi pubblicarlo, non è quello che la gente vuole vedere”.
Il punto è proprio questo. Kurt Cobain al cinema è stato sempre qualcosa che la gente non avrebbe voluto vedere. O meglio, non si aspettava. Come in occasione del criptico Last Days, di Gus Van Sant, in cui il protagonista si chiama Blake, ma è chiaramente ispirato a Cobain. A interpretarlo è Michael Pitt.
C’è una scena su tutte che ci dà il senso del film: quella di Blake davanti a un venditore di pagine gialle che non lo conosce. Ed è proprio l’imperscrutabilità di Kurt Cobain, l’insondabilità della sua anima ciò che ci arriva da Last Days. Chi può dire infatti di aver conosciuto Cobain? Né sua moglie, né gli altri Nirvana, né la gente che aveva attorno. Forse possono dire di conoscerlo i fan adoranti, che studiano e conoscono a memoria i suoi testi. Ma anche i testi delle canzoni non possono che essere uno spaccato della sua anima, qualcosa che filtra.
Quante altre cose ci sono dietro? Cobain è un mistero, e durante il film non ci arriva molto di lui (e questo può anche suscitare una certa delusione a una prima visione del film). Nel film Blake/Cobain si aggira come un fantasma tra persone con cui non riesce a entrare in contatto: sta per morire, ma forse è già morto. È emblematica la scena in cui Blake si scatena in sala prove: quello che dovrebbe essere il processo creativo, la nascita di una canzone, ci viene negato, e assistiamo alla scena dall’esterno, con la mdp quasi fissa, che si allontana lentamente dalla finestra da cui vediamo Blake.
Finora la cosa che ha raccontato meglio Cobain è stato un film che hanno visto in pochi, Kurt Cobain: About A Son, documentario-confessione di AJ Schnack, che ha recuperato 25 ore di nastri con un intervista fatta a Cobain tra il ’92 e il ’93, un anno prima che morisse, dal giornalista Michael Azerrad per il libro Come As You Are: The Story Of Nirvana.
“Il guscio non protegge le tartarughe: se cadono e si rompe il guscio loro muoiono”. Questa frase di Kurt Cobain arriva alla fine del primo atto del film, e ci svela tutta la sua fragilità. Sentire la sua storia raccontata da lui è qualcosa che non lascia indifferenti. “Ho sempre pensato di essere un alieno” gli sentiamo dire, mentre racconta della sua infanzia, tranquilla fino al divorzio dei genitori. La sua è stata l’ultima generazione cresciuta con una tv senza violenza, ma anche quella cresciuta con la minaccia di una guerra nucleare. “Per me e per molti altri della mia generazione l’irruzione di Kurt sulla scena ci ha permesso di riconoscerci e di identificarci in lui perché parlava di un’esperienza collettiva che ci caratterizzava” ci ha spiegato il regista a proposito del grande impatto che Cobain ha avuto sul pubblico.
“I cambiamenti nella struttura sociale e familiare, la Guerra Fredda, la vita in una piccola cittadina, i diversi atteggiamenti nei confronti delle donne e degli omosessuali: tutto questo ha generato un senso di smarrimento e di caos nella mia generazione, e Kurt si è fatto portavoce di questi sentimenti, li ha espressi, e in maniera molto rabbiosa”.
I Nirvana nel film non si sentono mai. E non si vedono, se non in qualche rapida foto delle loro esibizioni live. “Per far risaltare la vera identità di Kurt abbiamo pensato di associare alle interviste le esperienze che hanno caratterizzato la sua vita” ci ha raccontato AJ Schnack, “così come i luoghi che abbiamo mostrato sono quelli in cui si è mosso, così la musica è quella che lui ascoltava. Aveva cercato di mescolare i vari stili che lo avevano influenzato: sentire Queen, Cheap Trick, The Melvins, The Breeders, Mudhoney, David Bowie, R.E.M., Iggy Pop, Butthole Surfers ci aiuta a capire come sono nate Nevermind e In Utero e quale influenza abbiano avuto questi gruppi”.
“Queste registrazioni hanno un tono così intimo, sembra quasi di origliare una conversazione privata” raccontava il regista. “L’intento era quello di non distrarre con altre cose, ma lasciare ascoltare la sua vera e viva voce in una conversazione intima”.
“Non voglio diventare una rockstar, ma non è che non ho abbastanza coraggio per farlo” è un’altra frase che racconta il dilemma di Cobain. Alla domanda “pensi che il gruppo sopravvivrà?” risponde: “Io non voglio, ma può darsi, dipende dalla qualità delle canzoni. Sarebbe meglio suonare con altri e creare qualcosa di nuovo che restare nei Nirvana”. Nelle sue parole si coglie il disincanto e la consapevolezza che “il rock’n’roll si è già trasformato in una moda, o in qualcosa che la gente usa per scopare”. “Sono il prodotto di un’America viziata” dice. Forse lo siamo tutti, e per questo tanti si identificano in lui.
Maurizio Ermisino